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Laredazione

Quei ponti oltre la violenza

Jul 2nd, 2023
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  1. Quei ponti oltre la violenza
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  3. La rivolta francese e i diritti negati
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  5. di Concita De Gregorio
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  7. No, non è perché questo era arabo. Perché quello era nero. Non è soltanto razzismo, pregiudizio dei bianchi. La violenza che le maggioranze armate di potere esercitano sulle minoranze che non ne hanno alcuno, di potere, è un modo di concepire le relazioni fra gli uomini e di stabilire l’ordine nelle comunità che ci riguarda tutti, contagia ogni cosa, diventa un modo di pensare e un rassegnato accettare. Finché una volta qualsiasi, un giorno qualunque, non esplode la rivolta. Ci vuole sempre il morto, perché accada. Da sempre.
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  9. Ma le cose stavano così da prima, da moltissimo tempo prima. Era la norma. Era un sistema di caste, di condizioni sociali ed economiche talmente dispari da essere nemiche le une delle altre. Nemiche tra loro persino le ultime, in una guerra fra ultimi. Ci riguarda tutti, quel che succede in Francia, perché tutti siamo minoranza di qualche maggioranza. Tutti siamo esclusi da qualche circolo che include. Certo: qualcuno è più escluso di altri. Talmente escluso e invisibile, irrilevante o fastidioso che finisce che gli sparano.
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  11. Ma tutti abbiamo fatto esperienza di non avere accesso a un diritto elementare, di essere scavalcati o eliminati o ignorati da chi fa parte del club che comanda, che assegna lavori e case e posti a scuola in base alle amicizie, ai circoli, alle parentele e alle convenienze. Quindi tutti, a sforzarci un poco, possiamo riconoscere nell’ordine corrente delle cose una forma di sopruso. Una negazione strutturale del principio democratico perché a che altro serve, una democrazia, se non a integrare chi parte da condizioni di svantaggio. A eliminare o per lo meno ridurre fino a che possibile le disparità di condizioni date alla nascita, di opportunità di crescita, di occasioni di lavoro e di vita.
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  13. Quale altra è, la sfida di questo nostro tempo all’imbrunire, se non riaccendere la luce sulle grandi ingiustizie. La capacità di illuminare quel che accade nei luoghi dove non c’è corrente, nella penombra di periferie delle città, nei mondi dove si sopravvive — non si vive, non si cresce, non si spera di andarsene da lì né di rendere quel luogo, addirittura quello, un luogo degno. Che cos’altro distingue una democrazia di un paese evoluto e civile da un luogo senza legge, o dalla legge del tiranno, se non lo sforzo di accogliere, integrare, mescolarsi, istruire. Educarsi gli uni agli altri. Riuscire a farlo senza prepotenza, senza violenza perché ogni prepotenza è una miccia potenziale.
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  15. Nelle carceri, nelle strade, nei vicoli, nei mari, ovunque chi possa esercitare il suo potere su un altro essere umano lo fa senza timore di essere messo al bando, lo fa anzi nella convinzione di essere nel giusto e nell’approvazione sociale. Dettata dalla paura, naturalmente. Perché la paura, forma suprema di debolezza, detta la musica. Dall’integrazione degli esclusi passa la capacità di riscatto delle democrazie. Che non sono in buona salute, è evidente. Annaspano, sovente corrotte, di fronte alla voce brutta dei populismi, alle sirene dell’uomo forte che risolve i problemi per tutti — che sollievo, no?, delegare, lasciare che siano altri a pensare per noi. Ma che pericolo, anche. Come lo racconteremo, ai nostri nonni che si sono fatti torturare per garantire le nostre libertà.
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  17. Come diremo scusa, ma è stato tutto inutile: siamo di nuovo lì. Siamo ai tuoi vent’anni, settant’anni dopo. Che altro possiamo fare invece se non promettere loro, o giurare sulle loro tombe, che continueremo a dirlo a voce alta e fino allo sfinimento, quel che ci hanno lasciato in dote, e pazienza se siamo minoranza. Tutti, certo, vedete: tutti siamo in qualche modo minoranza. E allora? Bisogna forse rinunciare? Bisogna scendere in piazza e devastare, incendiare biblioteche pubbliche, rispondere con rabbia alla rabbia e con morti ad altri morti? Certo che no. La parola, è quel che abbiamo.
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  19. La parola che sappia arrivare dove non arriva più da tempo, togliere dalle orecchie la musica in cuffia e tornare ad ascoltarsi. Si sono svolti ieri i funerali di Nahel, che aveva 17 anni e non si è fermato a un posto di blocco. Direte: doveva fermarsi. Sì, certo. Se avesse avuto esperienza di rispetto reciproco, se le forze dell’ordine avessero una reputazione democratica, se non avesse avuto paura di essere picchiato, privato di parola o peggio perché la cronaca ce lo dice ogni giorno, in ogni luogo del mondo a partire dall’America, presunta esportatrice di democrazia, che ti ammazzano, invece, spesso. Ti inginocchiano e ti picchiano, per strada o in una cella, ti riducono al silenzio.
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  21. Quindi sì, si doveva fermare. Ma siamo sicuri di aver creato le condizioni per cui un minorenne di origine araba si senta al sicuro, quando una pattuglia lo ferma? Chiediamocelo: siamo sicuri? Il funerale si è svolto nella moschea di Nanterre. Nahel faceva il fattorino per un fast food, giocava a rugby, studiava per diventare elettricista, viveva da solo con la madre in un sobborgo di Parigi. Probabilmente aveva commesso qualche illecito, in passato. Non so, suppongo. I vostri figli cresciuti in famiglie medio borghesi, alto borghesi non commettono illeciti? Non bevono non fumano non comprano sostanze illegali nella piazza sotto casa non superano il limite di velocità con le grandi macchine prese in garage o a noleggio? Siete molto fortunati, perché tanti invece lo fanno.
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  23. Però alcuni si sentono più in pericolo di altri, a un posto di blocco. Magari non possono chiamare il padre o un avvocato, recarsi velocemente all’estero se sospettati. Quelli che diffidano della giustizia la rifuggono. Quindi il problema è generare giustizia giusta. Un sistema di controlli che non sia fondato sulla sopraffazione ma sul rispetto degli esseri umani. Chiedo. Domando a voi. Abbiamo un sistema di controlli e un sentire comune che esclude categoricamente che ci possano essere abusi di potere da parte della polizia? Abbiamo una cultura che ha eliminato ogni pregiudizio verso le minoranze? Abbiamo generato condizioni di vita che garantiscano l’integrazione delle prime ma ormai delle seconde e terze generazioni? Abbiamo dato loro cittadinanza? Perché se lo abbiamo fatto siamo tutti d’accordo. Un adolescente di periferia di colore o religione diversi da quella di chi gli intima l’alt deve fermarsi rispettosamente a un controllo.
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  25. Nessuno gli sparerà in testa. Neppure lo picchierà nella cella durante l’interrogatorio. Ma se non ce l’abbiamo, questa cultura democratica diffusa — è solo un’ipotesi, un esercizio dialettico — allora forse dobbiamo lavorare su questo. Generare educazione, scuola, possibilità di riscatto, di lavoro non nero ed equamente pagato che facciano sentire tutti al sicuro. Che diano a tutti una possibilità di cambiare le condizioni assegnate in partenza. Che lascino ciascuno libero di decidere cosa è famiglia, cosa è essere padri ed essere figli, cosa è comunità: in un quadro condiviso di diritti e di doveri. Siamo a posto col compito? Abbiamo già fatto questo? Se invece la forza e il dettato del più forte sul più debole fosse la regola, sempre per ipotesi, allora saremmo a rischio.
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  27. Di incendio, di devastazione, di rivoluzione violenta. Non è con la proibizione che si elimina il rischio, come sa chiunque abbia fatto di nascosto qualcosa che non doveva — cioè tutti, in qualche momento della vita. Non è creando barriere ma costruendo ponti che si genera una comunità. È banale, me ne scuso. Lo abbiamo detto mille volte, i nostri nonni ce lo spiegavano senza mai entrare nel dettaglio delle loro sofferenze. Ma appunto: siamo in grado di rispondere loro? Nonna, nonno, tranquilli. Abbiamo capito.
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