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- Meloni ripete tutti i suoi no alla Cgil. Ma ora può vantare di esserci stata
- di DANIELA PREZIOSI
- A mezzogiorno Maurizio Landini sale sul palco del Palacongresso di Rimini e fa la faccia cattiva con i suoi: «Saper ascoltare è la condizione per essere ascoltati». Sta per arrivare Giorgia Meloni, il segretario è sicuro che nessuno la fischierà, ma non si sa mai. Fuori l’accoglienza alla premier è stata amara ma tutto sommato a contestare sono una quarantina su mille delegati.
- Le sindacaliste si sono appese al collo orsetti di peluche, strumento della contestazione del governo a Cutro. Nella strage sono morti almeno 33 bambini. Landini ringrazia la premier: «Non vogliamo essere spettatori del cambiamento ma protagonisti. Per questo l’abbiamo invitata». Già, perché l’ha invitata? È una prassi, viene spiegato, i premier sono stati sempre invitati. Il sì di Meloni è benvenuto: serve a dimostrare che la Cgil è un interlocutore di palazzo Chigi, anche ai tempi della destra. E Meloni perché ha accettato?
- Per dimostrare di essere all’altezza del suo ruolo, anche davanti alle parti sociali più distanti. Insomma la legittimazione è reciproca: ma sarà lei a portare a casa il dividendo migliore, a capitalizzare meglio la passerella che le viene offerta. In realtà quando esordisce Meloni è la leader di destra di sempre. Non si sorveglia, fa le sue faccette: perché deve aspettare che la minoranza Cgil sciami dalla sala urlandole «Bella ciao» a pugno chiuso. Lei ringrazia anche chi la contesta, ma con sarcasmo: alcuni manifesti le dicono “Pensati sgradita”, citazione sanremese dell’influencer Chiara Ferragni: «Non pensavo che la Ferragni fosse un metalmeccanico».
- È da 27 anni che un premier non va a un congresso sindacale: lei, la prima premier di destra, dice che non dubita di fare meglio della sinistra. Finiti i convenevoli, però, spara una serie di no alle proposte della Cgil: per aumentare i salari «la strada è la crescita economica», lo Stato ha il compito di fare «regole giuste» e «redistribuire la parte che gli compete», ma di redistribuzione non parla; «il merito è l’unico vero ascensore sociale»; il salario minimo legale «può diventare una tutela non aggiuntiva ma sostitutiva» meglio «estendere i contratti collettivi, combattere i contratti pirata, ridurre il carico fiscale sul lavoro». Landini chiede il ritiro della riforma fiscale, e anche qui arriva un no: la legge è stata «un po’ frettolosamente bocciata da alcuni», cioè da lui, invece «ha importanti novità per i lavoratori dipendenti».
- LA FINZIONE DEL DIALOGO
- Promette che si confronterà sulla lotta alla denatalità per la quale il governo prepara «un piano imponente» che – deve dirlo a scanso equivoci – conterrà incentivi a chi assume neomamme. Su «un sistema di ammortizzatori sociali universali» che però resta vago. Cita la legge Biagi, che in realtà era la legge Maroni e aveva introdotto famigerati contratti «co.co.pro» (e infatti non era piaciuta alla Cgil); e così può dire, ricordando il giuslavorista ucciso nel 2002, che sperava fosse finito «il tempo della contrapposizione ideologica feroce» e invece no.
- Fa due esempi, secondo lei paralleli: un anno fa «l’assalto dell’estrema destra alla sede Cgil» – qui prende il suo unico applauso -, oggi «le minacce dei movimenti anarchici che si rifanno alle Br». Si toglie anche lo sfizio di decantare le lodi del presidenzialismo, a cui la platea è allergica. Per essere il giorno del dialogo, non c’è nulla su cui dialogare. Resta il bel gesto di aver accettato l’invito, ma le è utile a scansare l’accusa di snobbare i lavoratori. «Su alcune cose sarà più facile trovare condivisione, su molte altre sarà difficile» ma, concede, «rivendicate senza sconti, le istanze troveranno un impegno senza pregiudizi».
- Se ve va nello stesso gelo in cui è arrivata. Sparuti applausi di cortesia, frenati dal sospetto che nello scambio di gentilezze Landini-Meloni sarà lei a guadagnarci.
- Non a caso la destra di governo rivendica con orgoglio il «fatto storico». Senza neanche dover dare nulla in cambio.
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