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- Geografia di un dolore perfetto
- di Enrico Galiano
- Questa è la mia storia. La mia, e quella dei miei due padri.
- Al tempo stesso, però, è frutto di invenzione: per cui, anche se alcune vicende sono ispirate a fatti reali, nel complesso è pura finzione.
- Ho pensato a lungo a come spiegare questa cosa, poi ho scoperto che la scrittrice Jessamyn West lo aveva già fatto molti anni fa, quando disse: «Le storie inventate rivelano le verità che la realtà oscura».
- EG
- «Il giorno in cui il bambino si rende conto che tutti gli adulti sono imperfetti, diventa un adolescente; il giorno in cui li perdona, diventa un adulto; il giorno in cui perdona sé stesso, diventa un saggio.»
- ALDEN ALBERT NOWLAN, Scratchings
- «Vedrai che vita, vedrai.»
- VASCO ROSSi, Vita spericolata
- Quand’è che si smette di essere figli?
- C’è un giorno, un momento, una linea che superi e poi non sei più figlio di qualcuno, ma solo un uomo o una donna?
- Genitore è qualcosa che a un certo punto ti succede: prima non lo eri, poi sì. E da lì in poi lo sarai fino alla fine. Ma figlio: figlio lo sei fin dall’inizio, e sei convinto che un giorno smetterai di esserlo.
- Non funziona così.
- E non è nemmeno vera quella storia per cui gli amici te li scegli, mentre la famiglia ti capita. Anche un padre può essere scelto.
- Io scelsi il mio, un minuto prima di perderlo. E da quel momento capii che sarei stato figlio per sempre.
- PRIMA PARTE
- La scena in cui tutto comincia è questa.
- È importante visualizzarla bene, anche nei minimi dettagli.
- Dunque. È sera, dopo cena.
- Isola croata, villaggio vacanze per famiglie. Di quelli strapieni di bambini da tutte le parti, giocattoli sparsi nei corridoi e nella hall, tu sei lì che cammini e inciampi su un peluche. O direttamente su un bambino
- Quelli lì.
- Quelli che i genitori ci vanno perché c’è il servizio di babysitting totale: consegni il pargolo a un gruppo di ragazzi che lo fa giocare, correre, gli fare il bagno e intanto tu spegni il cervello per quattro ore sotto il sole, quattro benedette ore senza figli, due al mattino e due al pomeriggio. Il sogno inconfessato di ogni genitore in vacanza, l’unico modo perché essa si possa definire davvero vacanza, tanto che rischi addirittura di riuscire a leggere un libro, fare un vero bagno in mare, iniziare una conversazione e finirla.
- Quelli lì.
- Quelli che poi dopo cena gli animatori partono con la baby dance, e stormi di cinquenni impazziti saltano e urlano ripetendo i movimenti dei ballerini, mentre attendono trepidanti l’arrivo della mascotte dell’albergo, Pino, che si chiama così perché è un pino umano con il corpo da tronco e la testona a forma di chioma di abete, dentro la quale di solito c’è un diciottenne sottopagato che soffre temperature tropicali e suda più di un ippopotamo.
- Quelli lì.
- Quelli che, a fine serata, ci vai tu ad abbracciare Pino con affetto, perché ha sfinito tuo figlio mentre sereno ti ammazzavi di sangria e così, quando alle dieci si torna in stanza e il bimbo sviene dopo un minuto, c’è perfino la possibilità che si realizzi un evento rarissimo: tu e tua moglie che fate sesso.
- Quelli lì.
- E lo dovete visualizzare bene, questo albergo in Croazia: dovete vedere Pino che dà il cinque ai bambini e si fa fare le foto, sentire le canzoni tipo Mira Sofia e tutte quelle hit spagnoleggianti; dovete respirare l’odore della menta dei mojito che volano a fiumi fra i tavoli dei genitori abbronzati e finalmente con la pelle distesa, farvi abbagliare dai flash delle foto dei nuovi arrivati pronti a immortalare con un sorriso ebete ogni istante di vita della prole.
- Tutto questo, dovete vedere.
- Perché poi, in mezzo alla folla dei genitori in piedi intorno alla pista, proprio lì, ce n’è uno che non c’entra proprio niente con gli altri.
- Non sta facendo foto, non sta bevendo sangria, non sta applaudendo.
- Sta piangendo.
- E non sono lacrime di commozione. Quelle cose tipo: Oh che gioia, mio figlio sa ballare così bene!
- Niente di tutto questo.
- Davanti a suo figlio di cinque anni in estasi perché Pino gli ha appena dato il cinque, di fianco alla sua bellissima moglie di dieci anni più giovane, lui, sta piangendo a dirotto: senza freni, senza vergogna.
- Piange perché oggi ha ricevuto una videochiamata. Piange perché sullo schermo c’era una persona che lui non vedeva da undici anni.
- E quella persona, con una maschera per l’ossigeno sul volto, gli ha detto: «Sto morendo! Vieni qui, prima che sia troppo tardi!».
- Si chiama Pietro, quel tipo che piange sulla spalla della moglie nel villaggio vacanze.
- E quello lì, Pietro, sono io.
- ***
- «Ma tu fai finta, o cosa!»
- «Finta di far che?»
- «Di essere STRONZO!»
- Mi chiamo Pietro Venti. Sono seduto alla scrivania di una stanza d’albergo, pc sotto gli occhi e telefono in mano. Sulla parete di fronte a me c’è uno specchio: una ruga inedita mi sfiora il sorriso. Col dito cerco di toccarla: sono io o non sono io, quel tizio dall’altra parte?
- Ah, la voce nel telefono è quella di mio padre, Nando Venti. Con il suo consueto tempismo, si è fatto sentire proprio ora, mentre sto cercando i biglietti aerei per correre a Tenerife o, più precisamente, da Paco.
- Paco è l’uomo che mi ha videochiamato ieri, dicendomi che stava morendo: e Nando si mette a cercarmi proprio adesso. Ma che vuole da me?
- Rovinarmi i piani come al suo solito, suppongo.
- Come forse si è capito, non ha una grande considerazione di me: questo fin da piccolo, cioè da quando dovette constatare di avere per figlio il più scarso a giocare a calcio, l’unico a divertirsi più coi libri che con lo sport e, soprattutto, l’ultimo della nostra via a imparare a nuotare. Fin dall’inizio, insomma, c’è sempre stato un muro fra noi: lui nuotatore esperto e tuffatore eccezionale, io paura dell’acqua. Quel genere di paure che allontanano i bambini dal mare e, a volte, i padri dai figli.
- «Senti, Nando, io non ho capito bene cosa vuoi», gli rispondo.
- Io non chiamo mio papà papà. Lo chiamo Nando, oppure Quello là. Ma la verità è che non lo chiamo affatto, di solito.
- È che non riesco a vederlo come mio padre. Non che non mi sforzi, eh? Però i miei tentativi sono ostacolati da alcuni fattori: la rarità dei nostri incontri, i nostri caratteri così diversi e, infine, quel piccolo insignificante intoppo intercorso nel nostro rapporto.
- Quando ero in terza elementare, lui se ne andò di casa.
- Una cosa che ho capito diventando padre è che figli lo si è dalla nascita, genitori si diventa. Nando a un certo punto ha scelto di non diventarlo mai davvero, mai completamente. Una notte di neve, poi, andai a dormire che lui c’era, e il mattino dopo mi svegliai che non c’era più. Mamma mi disse che era via per lavoro: doveva essere un lavoro molto lungo e difficile, perché quando tornò io avevo già quattordici anni suonati e non riuscivo più a chiamarlo papà, ma solo Nando.
- Negli anni si è trasformato in un vecchio conoscente un po’ strambo, quello che salta fuori ogni tanto, gli dai un po’ corda e un po’ no. E soprattutto non vedi l’ora che sia il momento dei saluti.
- «E allora lo vedi che sei stronzo? Io voglio venire con te!»
- «Sì, questo l’ho capito, non sono così messo male. Quello che vorrei sapere è: perché?»
- «PERCHÉ HO SETTANTACINQUE ANNI E NON SO QUANTE OCCASIONI AVRÒ ANCORA DI FARE UN VIAGGIO CON MIO FIGLIO, ECCO PERCHÉ!»
- Lista delle cose che odio di mio papà: #512. Alza troppo la voce.
- Ci risiamo.
- Dev’essere una di quelle volte in cui cerca in tutti i modi di riallacciare i rapporti. Quando fa così, vuole che ricominciamo-a-essere-padre-e-figlio. Io allora lo lascio fare, rispondo alle sue chiamate, faccio buon viso a cattivo gioco: ma la verità è che non mi interessa.
- Non è che ti puoi svegliare un giorno e ricordarti di essere un padre, no? Non è un interruttore: o, se lo è, è uno di quelli che se li spegni una volta poi è quasi impossibile riaccenderli. Lui il tasto OFF lo schiacciò con forza quando avevo otto anni; adesso che ne ho trentasette in più la sostanza non cambia, solo che il dito sull’interruttore ce l’ho io.
- «Sei ancora vivo?»
- Sento la sua voce entrarmi nei timpani.
- La faccia nello specchio si rabbuia. Inspiro a fondo e inizio a scarabocchiare nervosamente con la penna sul blocchetto con impressa la facciona sorridente e colorata di Pino, il pino sottopagato. Mi vengono fuori solo disegnini lugubri e troppo calcati.
- «Senti, io sarò indaffaratissimo!» provo a scoraggiarlo. Gli ho detto che devo andare laggiù per una non meglio definita cosa-di-lavoro: non mi andava proprio di stare a spiegargli cosa devo andare a fare per davvero.
- «E allora?»
- «Come allora! Non è un viaggio di piacere, avrò mille pensieri per la testa e poi devo sbrigarmi: non posso assolutamente arrivare tardi!» rincaro la dose, aggiungendo l’unico dettaglio vero: che non posso, per nessuna ragione al mondo, perdere tempo. Mossa inutile, però, perché per lui è un assist: «Appunto, avrai bisogno di qualcuno che ti dà una mano, no?».
- Adesso mi sorge il sospetto che sappia qualcosa: ma chi potrebbe averglielo detto? Il sospetto evapora subito, così provo a mettere una pietra sopra questa conversazione assurda: «Sono arrivato fin qui cavandomela benissimo da solo!».
- Non so da dove mi sia uscita, ma ormai l’ho detta: è palesemente una frecciatina, anzi una frecciatona bella grossa. Alla quale lui risponde con il suo stile: «Ma cosa dici, che se non era per me dovevi ancora imparare a pisciare!».
- È pazzesco, coi genitori. Tu puoi anche aver scalato montagne, messo su famiglia, fatto carriera, per loro resti sempre l’immagine che si sono fatti di te a tre anni. Ti fai grande e grosso e perfino con qualche pelo bianco: loro vedranno solo il bambino spaurito che non stava in piedi da solo. Anche se oggi sono un professore universitario, se qualcosa più o meno sono riuscito a costruirlo, ai suoi occhi non è cambiato niente: io sono ancora il bimbetto che non sapeva stare a galla mentre gli altri già facevano i tuffi. E il fatto assurdo è che gli basta una battuta per farmi sentire ancora così. Ma come ci riesce?
- «Io…» provo a dire, ma la risposta mi muore fra le labbra. Bofonchio qualcosa, fingo che stia cadendo la linea, poi metto giù.
- Appunto, come dicevo: se uno ti tratta come un bambino, poi finisce che ti ci comporti.
- Nel frattempo, mia moglie sta uscendo dalla doccia. La guardo: è bellissima coi capelli bagnati che le ricadono sull’accappatoio.
- «Con chi parlavi?»
- «Con nessuno», le faccio. E non so fino a che punto sto mentendo.
- «Sicuro che vuoi fare questa cosa da solo?» mi chiede, mentre sfrega i capelli con un asciugamano. Due o tre gocce mi finiscono addosso, profumano di buono.
- «E che sarà mai. Ho fatto ben di peggio!» controbatto, assumendo l’aria da duro. In realtà dentro tremo, e tutto quello che vorrei è avere qualcuno con me in questo viaggio. Ma non glielo dico.
- Be’, qualcuno che non sia Nando, ovviamente. Il quale però insiste e richiama.
- «Prendimelo fila centrale il biglietto!» mi fa. Evidentemente si è bevuto la storia della linea caduta, ma io la faccio cadere ancora.
- Elena intanto torna in bagno ad asciugarsi i capelli, togliendo l’accappatoio e scoprendo il suo sedere perfetto.
- Sento di nuovo il telefono vibrare nella mano: non faccio niente, statua di sale. Elena spegne il phon, spunta la sua testa dalla porta e con uno sguardo preoccupato mi dice: «Ma sei sicuro che non stavi parlando con nessuno? Io ti ho sentito parlare!».
- «Certo!» rispondo prontamente, e lei rimane ferma in quella posizione a fissarmi con uno sguardo che ormai, dopo otto anni di matrimonio, so tradurre alla perfezione: “Ok, mi stai dicendo una cazzata”. Poi torna ad asciugarsi i capelli, mentre continuo a sentire la vibrazione del telefono nella mano e penso a come fare per toglierla.
- No. Non ce lo voglio Nando in un momento così difficile.
- Già sarò in crisi costante di mio, per colpa di questo viaggio improvviso deciso al termine di una videochiamata finita in lacrime: per tutto il tempo proietterò nel cinema della mia testa carrellate di errori, di rimpianti e di rimorsi, al solo pensiero di non arrivare in tempo. Ci mancherebbe solo la presenza della persona al cui fianco perdo tutte le mie sicurezze. La sua voce, però, mi martella ancora: «Allora?! Che pensi di dirmi?!».
- Eh, che penso di dirgli: che se sono anni che non ci frequentiamo ci sarà un perché. Che lui stamattina si è svegliato e improvvisamente non vuole solo vedermi, bere un caffè, ma addirittura spararsi un viaggio con me. E che viaggio, poi: due voli, un cambio a Madrid, più chissà cos’altro. Senza contare che a un certo punto insisterà per sapere cosa sto andando a fare in piena estate in un’isola in mezzo all’oceano.
- La cosa più difficile della mia vita, ecco cosa. E lui è l’ultimo che deve saperlo. Per cui butto giù per la terza volta e poi spengo il telefono.
- «Che hai? A che pensi?» mi chiede Elena, mentre, seduta sul letto, pettina nostro figlio che sta guardando un canale di cartoni animati in croato e, non si sa come, capisce lo stesso i dialoghi.
- «A niente, cose di lavoro», mento. In realtà ho ancora in mente la voce di mio padre, quando prima che buttassi giù mi ha detto: «Sei ancora lì o ti sei dato alla fuga come al solito?».
- Guardo mia moglie, mio figlio, la pagina con i voli per Tenerife.
- E, senza più esitare, sposto il mouse sul numero di passeggeri.
- Cliccando, con forza, sul numero 1.
- Tratto da: Geografia di un dolore perfetto di Enrico Galiano
- Per diventare grandi a volte, bisogna ricordarsi chi si era da bambini
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