Laredazione

Geografia di un dolore perfetto

Oct 1st, 2023
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  1. Geografia di un dolore perfetto
  2.  
  3. di Enrico Galiano
  4.  
  5. Questa è la mia storia. La mia, e quella dei miei due padri.
  6. Al tempo stesso, però, è frutto di invenzione: per cui, anche se alcune vicende sono ispirate a fatti reali, nel complesso è pura finzione.
  7. Ho pensato a lungo a come spiegare questa cosa, poi ho scoperto che la scrittrice Jessamyn West lo aveva già fatto molti anni fa, quando disse: «Le storie inventate rivelano le verità che la realtà oscura».
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  9. EG
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  11. «Il giorno in cui il bambino si rende conto che tutti gli adulti sono imperfetti, diventa un adolescente; il giorno in cui li perdona, diventa un adulto; il giorno in cui perdona sé stesso, diventa un saggio.»
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  13. ALDEN ALBERT NOWLAN, Scratchings
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  15. «Vedrai che vita, vedrai.»
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  17. VASCO ROSSi, Vita spericolata
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  19.  
  20.  
  21. Quand’è che si smette di essere figli?
  22.  
  23. C’è un giorno, un momento, una linea che superi e poi non sei più figlio di qualcuno, ma solo un uomo o una donna?
  24. Genitore è qualcosa che a un certo punto ti succede: prima non lo eri, poi sì. E da lì in poi lo sarai fino alla fine. Ma figlio: figlio lo sei fin dall’inizio, e sei convinto che un giorno smetterai di esserlo.
  25.  
  26. Non funziona così.
  27.  
  28. E non è nemmeno vera quella storia per cui gli amici te li scegli, mentre la famiglia ti capita. Anche un padre può essere scelto.
  29. Io scelsi il mio, un minuto prima di perderlo. E da quel momento capii che sarei stato figlio per sempre.
  30.  
  31. PRIMA PARTE
  32.  
  33. La scena in cui tutto comincia è questa.
  34. È importante visualizzarla bene, anche nei minimi dettagli.
  35. Dunque. È sera, dopo cena.
  36. Isola croata, villaggio vacanze per famiglie. Di quelli strapieni di bambini da tutte le parti, giocattoli sparsi nei corridoi e nella hall, tu sei lì che cammini e inciampi su un peluche. O direttamente su un bambino
  37.  
  38. Quelli lì.
  39. Quelli che i genitori ci vanno perché c’è il servizio di babysitting totale: consegni il pargolo a un gruppo di ragazzi che lo fa giocare, correre, gli fare il bagno e intanto tu spegni il cervello per quattro ore sotto il sole, quattro benedette ore senza figli, due al mattino e due al pomeriggio. Il sogno inconfessato di ogni genitore in vacanza, l’unico modo perché essa si possa definire davvero vacanza, tanto che rischi addirittura di riuscire a leggere un libro, fare un vero bagno in mare, iniziare una conversazione e finirla.
  40.  
  41. Quelli lì.
  42. Quelli che poi dopo cena gli animatori partono con la baby dance, e stormi di cinquenni impazziti saltano e urlano ripetendo i movimenti dei ballerini, mentre attendono trepidanti l’arrivo della mascotte dell’albergo, Pino, che si chiama così perché è un pino umano con il corpo da tronco e la testona a forma di chioma di abete, dentro la quale di solito c’è un diciottenne sottopagato che soffre temperature tropicali e suda più di un ippopotamo.
  43.  
  44. Quelli lì.
  45. Quelli che, a fine serata, ci vai tu ad abbracciare Pino con affetto, perché ha sfinito tuo figlio mentre sereno ti ammazzavi di sangria e così, quando alle dieci si torna in stanza e il bimbo sviene dopo un minuto, c’è perfino la possibilità che si realizzi un evento rarissimo: tu e tua moglie che fate sesso.
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  47. Quelli lì.
  48. E lo dovete visualizzare bene, questo albergo in Croazia: dovete vedere Pino che dà il cinque ai bambini e si fa fare le foto, sentire le canzoni tipo Mira Sofia e tutte quelle hit spagnoleggianti; dovete respirare l’odore della menta dei mojito che volano a fiumi fra i tavoli dei genitori abbronzati e finalmente con la pelle distesa, farvi abbagliare dai flash delle foto dei nuovi arrivati pronti a immortalare con un sorriso ebete ogni istante di vita della prole.
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  50. Tutto questo, dovete vedere.
  51. Perché poi, in mezzo alla folla dei genitori in piedi intorno alla pista, proprio lì, ce n’è uno che non c’entra proprio niente con gli altri.
  52.  
  53. Non sta facendo foto, non sta bevendo sangria, non sta applaudendo.
  54.  
  55. Sta piangendo.
  56. E non sono lacrime di commozione. Quelle cose tipo: Oh che gioia, mio figlio sa ballare così bene!
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  58. Niente di tutto questo.
  59. Davanti a suo figlio di cinque anni in estasi perché Pino gli ha appena dato il cinque, di fianco alla sua bellissima moglie di dieci anni più giovane, lui, sta piangendo a dirotto: senza freni, senza vergogna.
  60. Piange perché oggi ha ricevuto una videochiamata. Piange perché sullo schermo c’era una persona che lui non vedeva da undici anni.
  61. E quella persona, con una maschera per l’ossigeno sul volto, gli ha detto: «Sto morendo! Vieni qui, prima che sia troppo tardi!».
  62.  
  63. Si chiama Pietro, quel tipo che piange sulla spalla della moglie nel villaggio vacanze.
  64. E quello lì, Pietro, sono io.
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  66. ***
  67.  
  68. «Ma tu fai finta, o cosa!»
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  70. «Finta di far che?»
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  72. «Di essere STRONZO!»
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  74. Mi chiamo Pietro Venti. Sono seduto alla scrivania di una stanza d’albergo, pc sotto gli occhi e telefono in mano. Sulla parete di fronte a me c’è uno specchio: una ruga inedita mi sfiora il sorriso. Col dito cerco di toccarla: sono io o non sono io, quel tizio dall’altra parte?
  75.  
  76. Ah, la voce nel telefono è quella di mio padre, Nando Venti. Con il suo consueto tempismo, si è fatto sentire proprio ora, mentre sto cercando i biglietti aerei per correre a Tenerife o, più precisamente, da Paco.
  77.  
  78. Paco è l’uomo che mi ha videochiamato ieri, dicendomi che stava morendo: e Nando si mette a cercarmi proprio adesso. Ma che vuole da me?
  79.  
  80. Rovinarmi i piani come al suo solito, suppongo.
  81.  
  82. Come forse si è capito, non ha una grande considerazione di me: questo fin da piccolo, cioè da quando dovette constatare di avere per figlio il più scarso a giocare a calcio, l’unico a divertirsi più coi libri che con lo sport e, soprattutto, l’ultimo della nostra via a imparare a nuotare. Fin dall’inizio, insomma, c’è sempre stato un muro fra noi: lui nuotatore esperto e tuffatore eccezionale, io paura dell’acqua. Quel genere di paure che allontanano i bambini dal mare e, a volte, i padri dai figli.
  83.  
  84. «Senti, Nando, io non ho capito bene cosa vuoi», gli rispondo.
  85.  
  86. Io non chiamo mio papà papà. Lo chiamo Nando, oppure Quello là. Ma la verità è che non lo chiamo affatto, di solito.
  87.  
  88. È che non riesco a vederlo come mio padre. Non che non mi sforzi, eh? Però i miei tentativi sono ostacolati da alcuni fattori: la rarità dei nostri incontri, i nostri caratteri così diversi e, infine, quel piccolo insignificante intoppo intercorso nel nostro rapporto.
  89.  
  90. Quando ero in terza elementare, lui se ne andò di casa.
  91.  
  92. Una cosa che ho capito diventando padre è che figli lo si è dalla nascita, genitori si diventa. Nando a un certo punto ha scelto di non diventarlo mai davvero, mai completamente. Una notte di neve, poi, andai a dormire che lui c’era, e il mattino dopo mi svegliai che non c’era più. Mamma mi disse che era via per lavoro: doveva essere un lavoro molto lungo e difficile, perché quando tornò io avevo già quattordici anni suonati e non riuscivo più a chiamarlo papà, ma solo Nando.
  93.  
  94. Negli anni si è trasformato in un vecchio conoscente un po’ strambo, quello che salta fuori ogni tanto, gli dai un po’ corda e un po’ no. E soprattutto non vedi l’ora che sia il momento dei saluti.
  95.  
  96. «E allora lo vedi che sei stronzo? Io voglio venire con te!»
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  98. «Sì, questo l’ho capito, non sono così messo male. Quello che vorrei sapere è: perché?»
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  100. «PERCHÉ HO SETTANTACINQUE ANNI E NON SO QUANTE OCCASIONI AVRÒ ANCORA DI FARE UN VIAGGIO CON MIO FIGLIO, ECCO PERCHÉ!»
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  102. Lista delle cose che odio di mio papà: #512. Alza troppo la voce.
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  104. Ci risiamo.
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  106. Dev’essere una di quelle volte in cui cerca in tutti i modi di riallacciare i rapporti. Quando fa così, vuole che ricominciamo-a-essere-padre-e-figlio. Io allora lo lascio fare, rispondo alle sue chiamate, faccio buon viso a cattivo gioco: ma la verità è che non mi interessa.
  107.  
  108. Non è che ti puoi svegliare un giorno e ricordarti di essere un padre, no? Non è un interruttore: o, se lo è, è uno di quelli che se li spegni una volta poi è quasi impossibile riaccenderli. Lui il tasto OFF lo schiacciò con forza quando avevo otto anni; adesso che ne ho trentasette in più la sostanza non cambia, solo che il dito sull’interruttore ce l’ho io.
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  110. «Sei ancora vivo?»
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  112. Sento la sua voce entrarmi nei timpani.
  113.  
  114. La faccia nello specchio si rabbuia. Inspiro a fondo e inizio a scarabocchiare nervosamente con la penna sul blocchetto con impressa la facciona sorridente e colorata di Pino, il pino sottopagato. Mi vengono fuori solo disegnini lugubri e troppo calcati.
  115.  
  116. «Senti, io sarò indaffaratissimo!» provo a scoraggiarlo. Gli ho detto che devo andare laggiù per una non meglio definita cosa-di-lavoro: non mi andava proprio di stare a spiegargli cosa devo andare a fare per davvero.
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  118. «E allora?»
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  120. «Come allora! Non è un viaggio di piacere, avrò mille pensieri per la testa e poi devo sbrigarmi: non posso assolutamente arrivare tardi!» rincaro la dose, aggiungendo l’unico dettaglio vero: che non posso, per nessuna ragione al mondo, perdere tempo. Mossa inutile, però, perché per lui è un assist: «Appunto, avrai bisogno di qualcuno che ti dà una mano, no?».
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  122. Adesso mi sorge il sospetto che sappia qualcosa: ma chi potrebbe averglielo detto? Il sospetto evapora subito, così provo a mettere una pietra sopra questa conversazione assurda: «Sono arrivato fin qui cavandomela benissimo da solo!».
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  124. Non so da dove mi sia uscita, ma ormai l’ho detta: è palesemente una frecciatina, anzi una frecciatona bella grossa. Alla quale lui risponde con il suo stile: «Ma cosa dici, che se non era per me dovevi ancora imparare a pisciare!».
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  126. È pazzesco, coi genitori. Tu puoi anche aver scalato montagne, messo su famiglia, fatto carriera, per loro resti sempre l’immagine che si sono fatti di te a tre anni. Ti fai grande e grosso e perfino con qualche pelo bianco: loro vedranno solo il bambino spaurito che non stava in piedi da solo. Anche se oggi sono un professore universitario, se qualcosa più o meno sono riuscito a costruirlo, ai suoi occhi non è cambiato niente: io sono ancora il bimbetto che non sapeva stare a galla mentre gli altri già facevano i tuffi. E il fatto assurdo è che gli basta una battuta per farmi sentire ancora così. Ma come ci riesce?
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  128. «Io…» provo a dire, ma la risposta mi muore fra le labbra. Bofonchio qualcosa, fingo che stia cadendo la linea, poi metto giù.
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  130. Appunto, come dicevo: se uno ti tratta come un bambino, poi finisce che ti ci comporti.
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  132. Nel frattempo, mia moglie sta uscendo dalla doccia. La guardo: è bellissima coi capelli bagnati che le ricadono sull’accappatoio.
  133.  
  134. «Con chi parlavi?»
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  136. «Con nessuno», le faccio. E non so fino a che punto sto mentendo.
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  138. «Sicuro che vuoi fare questa cosa da solo?» mi chiede, mentre sfrega i capelli con un asciugamano. Due o tre gocce mi finiscono addosso, profumano di buono.
  139.  
  140. «E che sarà mai. Ho fatto ben di peggio!» controbatto, assumendo l’aria da duro. In realtà dentro tremo, e tutto quello che vorrei è avere qualcuno con me in questo viaggio. Ma non glielo dico.
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  142. Be’, qualcuno che non sia Nando, ovviamente. Il quale però insiste e richiama.
  143.  
  144. «Prendimelo fila centrale il biglietto!» mi fa. Evidentemente si è bevuto la storia della linea caduta, ma io la faccio cadere ancora.
  145.  
  146. Elena intanto torna in bagno ad asciugarsi i capelli, togliendo l’accappatoio e scoprendo il suo sedere perfetto.
  147.  
  148. Sento di nuovo il telefono vibrare nella mano: non faccio niente, statua di sale. Elena spegne il phon, spunta la sua testa dalla porta e con uno sguardo preoccupato mi dice: «Ma sei sicuro che non stavi parlando con nessuno? Io ti ho sentito parlare!».
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  150. «Certo!» rispondo prontamente, e lei rimane ferma in quella posizione a fissarmi con uno sguardo che ormai, dopo otto anni di matrimonio, so tradurre alla perfezione: “Ok, mi stai dicendo una cazzata”. Poi torna ad asciugarsi i capelli, mentre continuo a sentire la vibrazione del telefono nella mano e penso a come fare per toglierla.
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  152. No. Non ce lo voglio Nando in un momento così difficile.
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  154. Già sarò in crisi costante di mio, per colpa di questo viaggio improvviso deciso al termine di una videochiamata finita in lacrime: per tutto il tempo proietterò nel cinema della mia testa carrellate di errori, di rimpianti e di rimorsi, al solo pensiero di non arrivare in tempo. Ci mancherebbe solo la presenza della persona al cui fianco perdo tutte le mie sicurezze. La sua voce, però, mi martella ancora: «Allora?! Che pensi di dirmi?!».
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  156. Eh, che penso di dirgli: che se sono anni che non ci frequentiamo ci sarà un perché. Che lui stamattina si è svegliato e improvvisamente non vuole solo vedermi, bere un caffè, ma addirittura spararsi un viaggio con me. E che viaggio, poi: due voli, un cambio a Madrid, più chissà cos’altro. Senza contare che a un certo punto insisterà per sapere cosa sto andando a fare in piena estate in un’isola in mezzo all’oceano.
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  158. La cosa più difficile della mia vita, ecco cosa. E lui è l’ultimo che deve saperlo. Per cui butto giù per la terza volta e poi spengo il telefono.
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  160. «Che hai? A che pensi?» mi chiede Elena, mentre, seduta sul letto, pettina nostro figlio che sta guardando un canale di cartoni animati in croato e, non si sa come, capisce lo stesso i dialoghi.
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  162. «A niente, cose di lavoro», mento. In realtà ho ancora in mente la voce di mio padre, quando prima che buttassi giù mi ha detto: «Sei ancora lì o ti sei dato alla fuga come al solito?».
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  164. Guardo mia moglie, mio figlio, la pagina con i voli per Tenerife.
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  166. E, senza più esitare, sposto il mouse sul numero di passeggeri.
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  168. Cliccando, con forza, sul numero 1.
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  171. Tratto da: Geografia di un dolore perfetto di Enrico Galiano
  172. Per diventare grandi a volte, bisogna ricordarsi chi si era da bambini
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