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- La taverna dei puttanieri
- Voi, bestie che frequentate quell’immonda taverna,
- nove colonne dopo il tempio di Càstore e Pollùce,
- pensate di averlo solo voi il cazzo, che solo a voi,
- qualunque fichetta si presenti, sia concesso
- scoparverla mentre gli altri son tutti cornuti?
- O forse, dal momento che sedete in cento o duecento
- tutti in fila come deficienti, credete che non sarei capace
- di ficcarvelo in bocca a tutti e duecento quanti siete?
- E allora sappiatelo: sul muro davanti alla taverna
- scriverò che siete un branco di gran cazzoni, tutti.
- La mia donna, fuggita dalle mie braccia,
- lei, amata quanto nessuna mai sarà amata,
- in nome della quale ho combattuto così grandi battaglie,
- siede lì, tra voi. Ve la sbattete a turno, quasi che foste onesti
- e rispettabili, ma in realtà, ed è questa la cosa atroce,
- siete solo delle mezze seghe fallite e puttanieri da strada;
- e tu fra tutti sei il primo, Ignazio, impareggiabile capellone,
- nato tra i tanti conigli della Celtiberia,
- che credi d’esser bello nascosto dalla barba incolta
- e ti sfreghi i denti sciacquandoli con l’urina.
- Ad Aurelio e Furio
- Io ve lo ficcherò su per il culo e poi in bocca,
- Aurelio succhiacazzi e Furio frocia sfondata,
- che pei miei versetti pensate, sol perché
- son teneri e gentili, ch’io sia poco pudico e virtuoso.
- 5 Giacché è appropriato per un poeta onesto esser casto
- con sé stesso, ma nulla è dovuto dai suoi versetti;
- i quali hanno ora e per sempre arguzia e grazia,
- quando son tenerelli e un poco spudorati,
- e riescono a risvegliar un certo pruriginoso desiderio,
- 10 non dico nei fanciulli, ma in quei vecchi pelosi
- incapaci ormai d’inarcar la schiena rattrappita.
- Voi, che avete letto de' miei innumerevoli baci,
- pensate forse ch’io sia uomo perverso e poco virile?
- Credetemi, ve lo ficcherò su per il culo e poi in bocca.
- I segreti di Flavio
- Se non fossero indelicate e ineleganti, Flavio,
- desidereresti parlar delle tue voluttuose delizie
- al tuo Catullo e non potresti certo tacerne.
- In verità non so qual disfatta puttana tu abbia
- mai scelto: il vergognarsene è già una confessione.
- D’altra parte che tu non giaccia in notti solitarie
- lo grida a chiunque la tua stanzetta vanamente muta
- fragrante di ghirlande di fiori e di balsami di Siria,
- e di qua i cuscini sparsi ovunque e di là gli
- strofinii, e i continui tremori che scuotono il letto
- e gli scricchiolii di chi cammina avanti e indietro.
- E non convinci affatto, a nulla serve tacere.
- Perché? Non ti stiracchieresti i fianchi smagriti
- da troppe scopate se non facessi qualche sciocchezza.
- Dunque qualunque cosa tu abbia afferrato, dimmela,
- che sia buona o cattiva. Coi miei allegri versetti
- voglio portar te e i tuoi amori lassù, fino in cielo.
- T’affido l’amor mio
- T’affido l’amor mio come t’affiderei me stesso,
- Aurelio. Sol una gentilezza timidamente t’imploro,
- se mai qualcosa nel tuo animo hai desiderato ardentemente,
- per il quale invocasti l’innocenza e una tenera integrità,
- che tu mi mantenga pulito questo giovinetto,
- non dico dal popolo: ché non mi preoccupo di quelli,
- che per la strada, chi di qua chi di là,
- assorti nelle loro faccende passan oltre distrattamente;
- in verità è te ch’io temo e il tuo cazzo assai molesto
- pei ragazzi tutti, che sian buoni o cattivi.
- Tu, quando lui te l’ordina e a te piace, lo ficcherai dove credi,
- ovunque sarai, sempre che sia pronto in tiro, ma fuor di casa:
- questo sol ragazzo, non chiedo molto, devi pudicamente scansare.
- Poiché se la tua mente malata e la tua sconsiderata frenesia
- ti condurranno, scelerato, a una così grave infamia,
- tanto da aggredir slealmente la stessa mia persona,
- ah, infelice, qual sciagurato destino t’attende,
- afferrato per i piedi da quella porta spalancata
- passeranno ravanelli e cefali argentati.
- Aurelio, padre di tutti gli arrapati
- Aurelio, padre di tutti gli arrapati,
- non solamente di questi che conosci, ma di tutti quelli
- che furono che sono e degl’altri che negl’anni verranno,
- desideri inculare l’amor mio.
- E non lo nascondi: non appena puoi, giocando da solo con lui,
- ti strofini al suo fianco e le provi tutte.
- Illuso: mentre architetti i tuoi agguati
- io prima te lo ficcherò in bocca.
- E se tu lo facessi da sazio, ancora potrei passarci sopra:
- ma quel che ora mi fa incazzare è la tua fame immonda,
- e che insegni al mio ragazzo, ah, che pena per me, ad aver sete.
- Dunque finiscila qui, mentre sei ancora immacolato,
- e non portarmi allo stremo, o continuerai con un cazzo in bocca.
- Sei di già abbastanza felice, Furio
- Furio caro, non possiedi un servo e neanche del denaro
- e non una cimice o un ragno né il calore d’un focolare,
- ma hai un padre ed una matrigna, che a dire il vero
- coi denti potrebbero triturar la pietra,
- tu stai magnificamente con questo tuo genitore
- e con quella moglie tua parente secca come il legno.
- E non è poi così strano: state tutti assai bene,
- digerite in modo eccellente, non temete nulla,
- che siano incendi, o gravi sciagure,
- o azioni infami, o perfidi veleni,
- o alcun altro accidente che possa cagionar pericolo.
- E ancora grazie al sole e al freddo e alla fame
- avete corpi più rinsecchiti d’un corno
- o di quel che di più inaridito esista.
- Perché non dovresti star bene ed esser felice?
- Non sai cosa sia il sudore, e neppur la saliva,
- né il catarro nè lo sgradevole moccio del naso.
- E a questa pulizia aggiungi quella assai superiore,
- che il tuo culo è più lindo d’una salierina di vetro,
- e non caca dieci volte in un anno; e quel che fai
- è più duro d’una fava secca e dei ciottoli di fiume;
- tanto che se lo sfregassi e stropicciassi tra le mani,
- non potresti sporcarti neanche un sol dito.
- Queste gradevolezze tanto fortunate, Furio,
- non devi disprezzarle né ritenerle misere,
- e finiscila poi d’implorare quei cento sesterzi
- come al solito: sei di già abbastanza felice.
- Tallo, checca bocchinara
- Tallo checca bocchinara, più molle del pelo d’un coniglio
- o della midollina di un’oca o dell’insignificante lobulo d’un orecchio
- o del pisello moscio dei vecchi e d’un antro dimenticato coperto di ragnatele,
- ma anche, Tallo, più rapace d’una oscura tempesta,
- nel momento che la luna ti mostra ciondolanti donnaiuoli,
- rendimi il mio mantello, con cui sei volato via, ladro,
- e il fazzoletto di Sétabi e i ricami di Tìnia, che sei solito
- ostentare in pubblico, sommo idiota, come fossero cose tue.
- Molla la presa dei tuoi artigli, ora, e ridammeli subito,
- se non vuoi che sulle tue chiappette vellutate e sulle tue mani mollicce
- il mio flagello scarabocchi a fuoco l’ignominia,
- e che tu debba inusitatamente fremere come il minuto guscio d’una nave
- sorpreso dal vento furibondo nell'immenso mare spumeggiante.
- Aspettami Ipsitilla
- Ti amerò, mia dolce Ipsitilla,
- mia delizia, mia incantatrice,
- dimmi di venir da te a fare un riposino.
- E se deciderai così, fammi questo favore,
- non sprangare la porticina del tuo nido,
- e non farti venir voglia di uscire,
- ma resta in casa e preparati per
- farci nove scopate ininterrotte.
- In verità, se me lo vorrai chiedere, fallo subito:
- giacché son qui sdraiato dopo pranzo e satollo pancia
- all’aria col cazzo dritto sfondo tunica e mantello.
- Nulla è più sciocco d’una sciocca risata
- Ignazio, per esibire i suoi denti candidi, ride,
- ride in ogni luogo e per qualunque cosa. Quando il colpevole
- attende il giudizio, nel momento in cui l’oratore desta il pianto,
- lui ride; se si assiste afflitti al rogo d’un figlio devoto,
- mentre la madre orbata del suo solo ragazzo piange disperata,
- lui ride. Per qualunque cosa, ovunque si trovi,
- in qualunque momento che sia grave, ride, ride sempre:
- ha questo difetto che non è elegante, io penso, e neanche cortese.
- Dunque te lo devo proprio dire, mio buon Ignazio.
- Se tu fossi uno di Roma o un Sabino o un Tiburtino
- o un Umbro grosso o un grasso Etrusco
- o un Lanuvino orribile e coi denti di fuori
- o un Transpadano, per metterci anche i miei,
- o uno di un qualunque altro posto, dove si lavano i denti con acqua pura,
- pure ridere in ogni luogo e per qualunque cosa ti renderebbe antipatico:
- poiché non c’è nulla di più sciocco d’una sciocca risata.
- Ma tu sei un Celtibero: in terra Celtibera
- quello che uno piscia, la mattina dopo lo utilizza
- per strofinare a sangue denti e gengive,
- così quanto più questi vostri denti son puliti,
- tanto più si palesa il piscio che ti sei bevuto.
- meana, l’amichetta di Mamurra
- Ameana, puttanella sfranta dal troppo sesso,
- me ne ha chieste diecimila tonde tonde,
- codesta troietta dal naso deforme,
- amichetta del formiano fallito.
- Voi parenti, a cui la ragazza è affidata,
- convocate medici e amici tutti e riportatela in sé:
- questa non è sana di mente, e neanche è abituata
- a chiedere qual sia il suo prezzo; stà delirando.
- Restituiscimi i versetti lurida cagna
- Accorrete, endecassilabi, quanti voi siete
- da ogni luogo tutti, tutti quanti, ovunque voi siete.
- Una disgustosa puttana pensa ch’io sia il suo zimbello
- e si rifiuta di ridarmi i nostri versetti,
- se solo voi poteste tollerarlo.
- Inseguiamola, e non diamole tregua.
- Chi mai sia, voi chiedete: quella, che vedete
- incedere turpe, sembra un pagliaccio e con quella boccaccia
- dalla risata molesta par essere un cucciolo di cane di Gallia.
- Circondatela, e non datele tregua:
- 'Fetida d’una puttana, restituisci i versetti,
- restituiscili tutti, puttana putrefatta'.
- Te ne freghi? Oh che zozza, che gran troia,
- la più degenerata che possa esistere.
- Ma credo che questo non sia ancora sufficiente.
- Se non altro che noi la si possa far bruciare di vergogna,
- quella cagna dura come il ferro.
- Strillate ancora, urlate più forte:
- 'Fetida d’una puttana, restituisci i versetti,
- restituiscili tutti, puttana putrefatta'.
- Ma niente, non si ottiene niente, nulla la smuove.
- È ragionevole per noi cambiar metodo e maniera,
- se vogliamo sperare di ottener qualcosa:
- 'O fonte d’immacolata bontà casta e pura, ridammi i versetti'.
- È stato un attimo
- Oh che situazione ridicola, Catone, e divertente tanto
- che merita tu l’ascolti e ne possa sghignazzare fragorosamente.
- Non importa che tu ne rida, Catone, se vuoi bene a Catullo:
- è una cosa comica e veramente bizzarra.
- Ho incontrato un tipetto nel mentre ch’era intento a ficcarlo
- in una fanciulla: io, a Venere piacendo,
- col mio dardo ritto, è stato un attimo, l’ho inculato.
- Lesbia pompinara
- Lesbia, la mia Lesbia, Celio, quella Lesbia,
- proprio lei, la sola che Catullo mai abbia amato
- più di sé stesso e d’ogn’altra cosa a lui cara,
- agl’angoli delle strade e nel buio dei vicoletti
- ora scappella i cazzi della fiera gioventù romana
- Lo zio di Gellio
- Gellio aveva udito lo zio esser solito strepitare,
- se qualcuno raccontava di voluttuosi godimenti o li praticava.
- Per non esser snervato anche lui da questo, si scopò sua moglie
- e lo rese così personificazione stessa del silenzio.
- Ottenne quel che voleva: ora infatti, se pure ficcasse il cazzo
- in bocca allo zietto, lui non direbbe una parola.
- Le candide labbra di Gellio
- Come puoi, Gellio, spiegare perché queste tue labbrucce rosee
- divengono più candide della neve d’inverno,
- quando alla mattina esci di casa o quando nel primo pomeriggio
- delle lunghe giornate estive ti ridesti dal pigro riposo?
- Per certo non saprei come avvenga: ma potrebbe esser vero, qualcuno lo sussurra,
- che sei un divoratore di quell’enorme arnese ch’esce dall’inguine di un uomo?
- è così, di sicuro: lo gridano la schiena rotta di Vittorio,
- pover’uomo, e le tue labbra segnate dal latte che hai succhiato.
- Gellio scellerato
- Come chiamare, Gellio, quello che si arrapa con madre e sorella
- e buttati all’aria i vestiti rimane sveglio tutta la notte?
- Come chiamarlo, quello che non consente allo zio d’esser marito?
- Esiste un modo perché tu possa comprendere quanto scellerato sia il suo agire?
- Una azione, Gellio, che non Teti lontana al di là d’ogni cosa
- e neanche Oceano padre delle ninfe potrebbero lavare:
- dato che nessuno conosce una qualunque depravazione che possa superar questa,
- neanche se, chinato il capo, si succhiasse il suo stesso cazzo.
- Emilio faccia di culo
- Che gli dei mi perdonino per questo, ma non avevo idea a cosa riferire,
- se alla bocca o al culo di Emilio, l’odore che sentivo.
- Solitamente nulla è più pulito di questa, e nulla è più sudicio di quello,
- ma in verità il suo culo è più pulito e più gradevole:
- almeno è senza denti: la bocca ha zanne lunghe un piede e mezzo,
- con gengive che assomigliano di più a un vecchio carretto,
- e in aggiunta quand’è aperta è tal quale
- la fica rotta d’una mula in calore mentre piscia.
- Lui ne fotte molte e crede d’esser bello,
- e non dovrebbe andare a lavorare alla mola con l’asino?
- Quella che ci si strofina, non sarebbe forse capace
- di leccare il culo d’un boia infetto?
- La lingua di Vezio
- A te, e a nessun altro, si può ben dire, Vezio fetente,
- quel che si dice a pomposi logorroici e idioti:
- con codesta lingua, se ne dovessi aver bisogno, potresti
- leccar culi e ciabatte di cuoiaccio grezzo.
- E se ci vorrai schiantar del tutto in un sol colpo, Vezio,
- apri la bocca: quel che desideri l’otterrai pienamente.
- La virtù di Aufilena
- Viver contenta con un solo uomo, Aufilena,
- d’ogni amata è la lode fra le lodi la più eccellente;
- ma è al pari preferibile giacere con chi e quanto più ti piace,
- piuttosto che esser madre con lo zio e partorir cugini.
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