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intervista

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Dec 30th, 2014
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  1. PISA - Se la malinconia fosse un colore, sarebbe il blu cobalto degli occhi di Camila Giorgi, 23 anni oggi (auguri), coda bionda da Lolita e unghie rosse da combattimento per riscrivere le gerarchie del tennis italiano (già battute Schiavone, Pennetta, Errani e Vinci) e, forse (k.o. Azarenka, Cibulkova e Wozniacki, più Sharapova: tre top- 10 in una stagione) del ranking mondiale. A San Rossore, clinica con vista sulla torre di Pisa e sul centro tecnico federale di Tirrenia (dove si allena dal 2013), Camila sta completando il check up prima di decollare per l’Australia (debutto a Hobart, Tasmania): prove posturali, lavoro sul respiro e due denti del giudizio tolti nella speranza di risolvere il problema alla spalla che due anni fa la tenne ferma a lungo. È gonfia e dolorante, con poca voglia di parlare. Ma poiché senza papà Sergio, argentino con mamma spagnola e padre di Perugia, non esisterebbe Camila — e viceversa —, è a questo uomo vulcanico e onnipresente, iperattivo e visionario al punto da immaginarsi la figlia n. 1 del mondo, factotum e coach senza aver mai giocato a tennis (quindi criticatissimo), versione 2.0 dello stereotipo del padre-padrone molto in voga negli anni Novanta, che bisogna rivolgersi per risalire alle pendici di Camila e provare a capire il fenomeno Giorgi. «Camila è nata a Macerata perché mia moglie Claudia, argentina con madre di Varese e padre di Taranto, nel ’91 insegnava arte contemporanea nelle Marche. Ha un talento atletico impressionante: qualsiasi sport facesse, le riusciva bene. Da bambina eccelleva nella ginnastica artistica, aveva maestri russi severissimi, stava per fare il salto in nazionale. I suoi fratelli giocavano a tennis. Lei volle provare. La portai in un pallone, spensi il riscaldamento. Le dissi di fare le flessioni con la faccia nella terra rossa. Camila piangeva, mia moglie voleva strangolarmi. Le spiegai che per fare la professionista del tennis ci vogliono mentalità vincente e fisico d’acciaio. Continuammo così per 4-5 mesi, senza toccare la racchetta. Camila aveva 5 anni». Sergio Giorgi non è cattivo, è che lo disegnano così. Ha i tic del perfetto fanatico, e non lo nega («Vado pazzo per gli sport: mio figlio Amadeus, 19 anni, diventerà un calciatore fortissimo, altro che Balotelli... »), è irrorato da una personalissima filosofia di gioco («La difesa è banale. Esistono, invece, infinite formule d’attacco ma devi avere talento e gambe rapidissime, come Camila») e da un’energia spesso sopra le righe però vitale, motore di una famiglia che per coltivare il sogno di una figlia campionessa ha venduto casa e macchina, ha traslocato 15 volte, si è fatta amici e nemici in ogni angolo del globo tennisacqueo e ha superato il dramma vero della morte di Antonela, amatissima primogenita, vittima cinque anni fa di un incidente a Parigi. È Sergio, nella foga della generosità con cui si racconta, a volerne parlare: «Camila si merita di vincere ogni partita che gioca. Io, a bordo campo, soffro tanto, da padre. Noi Giorgi ci portiamo dentro uno choc fortissimo. La gente si permette di giudicare, bla, bla, bla, ma non sa nulla. Quando Antonela è scomparsa, ci è crollato il mondo addosso: ho temuto che Camila lasciasse il tennis. Ha perso una sorella e non ha mai cercato scuse...». Qui, per la prima volta, Camila apre bocca senza essere interrogata: «Oggi avrebbe 27 anni...» dice, con un filo di voce. È nel tennis, nell’amore per i genitori e nello spasmodico tentativo di soddisfare le loro ogni stilla di volontà. Il suo potenziale è enorme: ha chiuso l’anno da n. 34 con due finali Wta (Linz e Katowice con match point) e molti scalpi illustri, ha debuttato in Fed Cup, gioca un tennis aggressivo e moderno in cerca di una quadratura. «Devo diventare più continua, non guardo né la classifica né i punti: il 2014 è stato un anno ad altissimo livello, ora mi sento più solida e nel 2015 tenterò il salto di qualità» mormora con un tono di voce inversamente proporzionale alle intenzioni bellicose. Le piacciono Tiziano Ferro, le tagliatelle al salmone e i libri di Stephen King. L’amore? «Non lo escludo. Se non destabilizza, può aiutare...». Sergio interviene. Scherza, ma non troppo: «I ragazzi le si possono avvicinare, certo. A un chilometro di distanza». Si avverte una certa elettricità, tra padre e figlia, anche in un giorno di scarico come questo. Molto di ciò che Sergio racconta, ahinoi, non si può scrivere. Ma è chiaro che considera Camila, lui che non ha mai preso in mano una racchetta e allena una potenziale top-10, una sua creatura. Rifiuta gli sponsor, che non offrono mai abbastanza. Fa disegnare i completini alla moglie. Non crede nei grandi ex diventati allenatori, nelle diete miracolose (vedi Djokovic), nel doppio, che Camila non giocherà mai. Soldato nella guerra delle Falkland, Sergio non è mai uscito di trincea. Combatte il sistema, solo contro tutti. Come finirà la storia di Camila, coach? «Presto sapremo. Chi dice che di tennis non capisco assolutamente niente, forse ha ragione». Ci vorrebbe Freud, e l’interpretazione dei sogni. Ma in fondo è solo tennis: basta tenerla tra le righe.
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